Eliminare le province per ridurre la spesa pubblica

Intervento di Vincenzo Santovito - Presidente L.A.C. - Libera Associazione Civica - Andria
Redazione 14 Ottobre 2010 notizie 956
Eliminare le province per ridurre la spesa pubblica


La Libera Associazione Civica ancora una volta si pone domande circa l’utilità della 6^ provincia pugliese e di tutte le province italiane. Un ente locale intermedio tra Regione e Comune con compiti istituzionali marginali e di nessuna rilevanza.
La ‘provincia’ è stata in discussione sin dalla sua istituzione, avvenuta, dopo l’unità d’Italia, con la legge del 1865 che estendeva l’istituto, già presente nello Stato sardo-piemontese. Le nuove province solo raramente coincidevano con gli ordinamenti territoriali degli Stati preesistenti, ma erano realtà solo giuridiche, se non addirittura frutto di scelte arbitrarie.
La provincia veniva considerata un’entità artificiale, per di più in bilico tra lo ‘status’ di ente territoriale e quello di circoscrizione amministrativa periferica dello Stato. Insomma un confine per un area funzionale al decentramento, senza una vera rappresentazione della realtà socio economica e priva di autonomia propria.
Anche nei decenni successivi questo ente fu oggetto di critiche aspre.
Emilio Caldara (sindaco di Milano dal 1914 al 1920) quando era segretario dell’Associazione nazionale dei comuni, nei primi anni del XX secolo, considerava le province, di cui auspicava l’eliminazione, “enti buoni solo per i manicomi e per le strade” che avrebbero potuto essere facilmente sostituiti ‘da consorzi tra comuni e da aziende consorziali’. Questa opinione era ampiamente diffusa.
Nei primi anni del governo fascista lÂ’esistenza delle province fu di nuovo in forse in occasione della riforma della legge comunale e provinciale, dal 1923 al 1928, periodo caratterizzato dalla creazione di enti e organi in settori di competenza provinciale, a testimonianza dellÂ’indifferenza verso il futuro di tali enti.
La provincia tuttavia rimase in piedi anche come antidoto rispetto allÂ’istituto regionale, ipotizzato da Luigi Sturzo.
Nel secondo dopoguerra il maggior sostenitore della soppressione delle province è stato il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, in questo coerente con le indicazioni originarie della costituente.
La Commissione dei ‘settantacinque’, infatti, aveva proposto un testo molto chiaro e semplice, che avrebbe risolto la ‘vexata quaestio’.
“La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni. Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale”
Le cose andarono diversamente e l’art. 114 ricomprese le Province cui si sono aggiunte, dopo la modifica costituzionale del 2001, le Città metropolitane.
Riproporre oggi la soppressione delle province non significa fare un’altra battaglia contro i ‘mulini a vento’, ma porre una questione reale.
Vuol dire affrontare concretamente il problema della riduzione della spesa pubblica.
Se il costo delle Province è pari a 17 miliardi di Euro senza illudersi di azzerare questa uscita, si può ipotizzare che l’eliminazione degli emolumenti degli eletti, l’alienazione di beni immobili non più necessari per servizi già svolti da altre amministrazioni pubbliche, nonché l’abbattimento conseguente della spesa delle gestioni produrrebbe un risparmio significativo. E’ un ente che incide fortemente sulle tasche dei cittadini: fonte Eurispes e dati del 2006 con l’abolizione di queste si otterrebbe un risparmio di 10, 6 miliardi di euro l’anno, un ente che dal 2001 al 2006 ha avuto un incremento dell’indebitamento del 400% (da 500 milioni a 2 miliardi di euro) sempre fonte Eurispes.
In un momento in cui si chiedono ulteriori sacrifici ai cittadini, a causa del deficit pubblico, è moralmente corretto incidere sugli apparati burocratici. Un esempio: la 6^ provincia pugliese, Andria-Barletta-Trani, un “cerbero” con appena 380.000 abitanti.
I benefici tanto declamati, pare, rimarranno soltanto sulla carta, anzi un territorio già depresso economicamente sarà oggetto di ulteriori vessazioni fiscali per i motivi esposti prima. Altra nota dolente, il costo dei servizi pubblici: gas, acqua, energia, telefonia, carburanti, ecc., ed infine il costo del denaro, legati ai parametri dettati dal libero mercato neoliberista e ai “desiderata” del Governo – evidente il riferimento all’inflazione programmata- cui, invece, sono sottoposti salari e pensioni. Da anni stiamo assistendo all’impoverimento dei pensionati e dei salariati, il potere di acquisto si è ridotto di 5.500 euro. E pensare che tanti cittadini rinunciano finanche alle cure dentarie che invece sappiamo quanto sono necessarie per la salute. Emblematica è la questione dei banchi scolastici; le scuole superiori della provincia, qualora le imprese aderiranno all’iniziativa di sponsorizzare le suppellettili, avranno il compito delle imprese di marketing, cioè saranno ridotte al ruolo di agenzie pubblicitarie, se questa è cultura?
Chi vi scrive percepisce una pensione di 470,00 euro mensili. Ogni commento è superfluo. Mentre le cronache ci hanno riferito di manager di Stato, che percepiscono compensi da nababbi ed il cui compito è quello di fare fallire storiche realtà economiche, vedi Alitalia e l’ex amministratore delegato con i suoi 6.000 euro di appannaggi al giorno, e dei soldi spesi per avvenimenti pseudo - culturali quali: il festival Castel dei Mondi e il concerto di Elton John, momenti preclusi al cittadino e passerella invece dei vip.
Pochi euro vanno riconosciuti ai dipendenti a fronte di aumenti del carico di lavoro, i cui effetti non si avvertono in busta paga, causa il differenziale tra lÂ’inflazione reale e quella programmata, inoltre i prezzi fuori controllo dei beni primari, per non parlare dellÂ’aumento delle tasse imposte dalle autonomie locali.
Il personale potrebbe essere assegnato alle altre amministrazioni tenuto conto del buon livello professionale esistente. Per contro cadrebbero le migliaia di consulenze cui le Province hanno fatto ricorso in questi anni.
Le attuali competenze delle amministrazioni provinciali sarebbero svolte dalle Regioni e dai Comuni. Gli strumenti operativi, ove ritenuti utili per coordinare gli interventi ad una dimensione sub regionale, potrebbero essere creati dalle Regioni senza spesa alcuna.
Tra l’altro per realizzare progetti infrastrutturali complessi si può ricorrere agli Accordi di Programma che hanno ben funzionato laddove sono stati utilizzati correttamente. Vedasi il ‘passante ferroviario’ di Milano (tempi lunghi, ma per ragioni finanziarie) o il nuovo polo fieristico milanese.
Soppressione delle Province dunque come atto riformatore, senza eccezioni.
Personalmente, ma non è un’opinione solo mia, sono contrario anche alla ‘Città metropolitana’ come livello istituzionale sostitutivo della Provincia.
L’inserimento di questa entità territoriale nella costituzione rischia di creare ulteriore confusione e arriva tardi, quando in altri Paesi europei è superato da decenni.
Indipendentemente dalla scuola di pensiero che si predilige, ciò che emerge è la necessità di pensare in grande (e subito).
‘In grande’, non solo come definizione simbolica, ma proprio nei termini dimensionali della questione.
Non si possono affrontare i problemi del trasporto e del traffico, al solo livello comunale e provinciale.
A maggior ragione ciò vale per la difesa dell’ambiente. Per i programmi urbanistici. Per le infrastrutture materiali e immateriali.
L’appartenenza all’Unione Europea non produce, dal canto suo, risultati tangibili, anzi la mancanza della Costituzione Europea e il comportamento della BCE, intento a mantenere alto il costo del denaro, per cercare di frenare l’inflazione, incidono fortemente sia sul senso civico sia sulle tasche dei cittadini, senza tenere in conto dell’enfatizzata crescita prossima allo zero del PIL della zona euro. Mentre delle infrastrutture e particolarmente del dimenticato “corridoio 8” non si parla più, vero strumento di sviluppo socio – economico e di scambi culturali. Il nostro territorio è dotato di infrastrutture vecchie e ridotte al minimo, siamo dimenticati dai nostri governanti come dall’U.E e dalle amministrazioni locali. Come potremo parlare di sviluppo, se la legislazione comunitaria non tutela di fatto finanche i nostri prodotti tipici?
La “questione meridionale” si risolve anche con l’ammodernamento delle vie di comunicazione, dando vita ad un tavolo delle istituzioni pubbliche e private, per una verifica delle necessità e una programmazione moderna e liberale dello sviluppo. Senza neo dirigismo, ma con la ricerca di convergenze sugli interventi di ‘scala regionale e interregionale’ che non possono essere attuati dai singoli enti locali, che stimolino l’autopromozione e superino l’assistenzialismo.
Ciò che conta è il metodo: programmare negoziando, tra istituzioni e privati. Riforme per uscire dalla crisi
Cisnetto e Società Aperta propongono la ’costituente’. E’ stata formalizzata la proposta con un disegno di legge, ma si pensa ad un processo che può avere delle modalità diverse da quelle di una assemblea elettiva.
L’idea è conseguente alla constatazione del fallimento della cosiddetta ‘seconda repubblica’, sia sotto il profilo politico che economico.
LÂ’Italia ha fatto passi indietro sia con i governi di centro-sinistra sia con quelli di centro-destra dal 1993 ad oggi.
E’ aumentato il debito pubblico; l’incremento del PIL è andato decrescendo anno dopo anno; le privatizzazioni non hanno determinato quella spinta liberale in avanti che era stata preconizzata; la stabilità, indubitabile, delle maggioranze di governo non è servita a migliorare la situazione.
Il vero pozzo senza fondo è l’ingovernabilità della sanità e dei suoi apparati burocratici, primo tra tutti l’istituto superiore di sanità, legato alle case farmaceutiche e poco incline a ricerche e studi proposti da studiosi non “allineati”, molte colpe sono ascrivibili anche ai mass – media, allineati e coperti come sono e adagiati al sistema.
Questo significa che non è sufficiente disporre di una larga maggioranza per governare bene, se manca una vera strategia o se le coalizioni sono eterogenee al punto di determinare spinte uguali e contrarie che provocano immobilismo o andature da ‘stop and go’.
Come molti osservatori hanno sottolineato l’attuale bipolarismo ha dato e dà, alle ‘estreme’ di destra e di sinistra, un peso nelle coalizioni nettamente superiore a quanto esse rappresentano nel Paese.
La grande maggioranza dei cittadini in un certo senso diventa minoranza a causa di un sistema elettorale sbagliato.
In Italia, infatti, non c’è un’alternanza dove, democraticamente, coalizioni di colore diverso si contrappongono senza perdere di vista gli interessi generali del Paese, il bene comune, sui quali c’è una convergenza anche quando sono differenti i ceti sociali rappresentati.
C’è invece una sorta di scontro permanente non armato nell’ambito del quale le ali estreme dettano la strategia di fondo.
Da anni si parla di federalismo, ma quale? Quello di Gaetano Salvemini, Tommaso Fiore, o quello di Bossi, che relega il Sud alla periferia dellÂ’Italia e conseguentemente dellÂ’UE.
Gli obbiettivi devono perciò essere chiari: cambiare le regole elettorali; cambiare anche le regole della divisione dei poteri e nell’ambito dei poteri; puntare ad un nuovo parlamento. Vanno ricercati i riferimenti sostanziali di una politica estera condivisa, che risponda agli interessi dell’Italia. Il filo conduttore non può cambiare ad ogni mutare di governo.
Per far emergere le posizioni equilibrate bisogna modificare la legge elettorale con un ritorno alla proporzionale, sia pure corretta con sbarramenti, ma diversa da quella attuale, il “porcellum” (basta la parola!) e dal ‘matarellum’ di qualche anno fa.
Ritorno al centrismo? No, ritorno a raggruppamenti nei quali prevalgano posizioni equilibrate, di destra o di sinistra, con la ricerca del consenso nellÂ’area moderata (di destra e di sinistra) dellÂ’elettorato, sulla base di programmi riformisti o conservatori, ma non pseudo - rivoluzionari o reazionari ed oligarchici, per pochi.
Se potesse servire una ‘grande coalizione’ dovremmo sostenerla anche se il suo compito fosse limitato a elaborare una nuova legge elettorale e una politica fiscale meno vessatoria, per una nuova fase di transizione verso nuove elezioni politiche e verso un processo costituente.

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